giovedì 22 gennaio 2009

le ombre lunghe degli aeroporti





Per partire la nostra nave, galleggiante o volante, ha bisogno di un porto, e chi pensa che i porti per volare siano in fondo tutti uguali, non-luoghi omologati dove si potrebbe essere indifferentemente ovunque e da nessuna parte si sbaglia.
Certo, molti aeroporti si somigliano, ma meritano uno sguardo speciale che non si limiti alle apparenze per essere veramente compresi.
Gli aeroporti segnano innovazioni e ritardi, speranze realizzate o fallite, ricchezze e miserie, progressi e regressioni, errori e vittorie delle città e dei paesi che li ospitano: l'India si comincia a capire dai suoi aeroporti, Calcutta, New Delhi e Mumbai, tra ritardi dello stato e potenza del privato; la Germania si mostra grandiosa a Francoforte e Monaco; la Libia è molto più vicina a Milano se si va a Tripoli magari partendo da Malpensa e si scopre che il verde è un colore amato dai leghisti, dagli architetti-arredatori-designer milanesi e dal mondo arabo e che l'Italia rimane mediterranea anche nella trascuratezza del grande aeroporto della sua capitale economica ed "europea".
Così Fiumicino è un aeroporto che si può intuire nella sua complessità forse solo partendo per un volo intercontinentale di primissima mattina, quando fuori l'aria è fredda, attraversata dalla luce dei neon e si entra nel vuoto dei check-in chiusi, aspettando che tutto apra in quell'intervallo dove ogni cosa deve ancora cominciare e dove la vita che si agiterà qualche ora dopo non appare neanche possibile. Da lì comincia quell'attesa che segna i passi di un lungo viaggio, e forse non a caso con le Attese di partire Piero Guccione ha dipinto quelli che oggi potrebbero essere i suoi quadri migliori, opere dove le ombre lunghe che entrano con il sole dalle vetrate restituiscono il mistero chiaro e la sospensione di quelle attese oggi sempre più amplificate dalle necessità della sicurezza, dalla complessità degli intrecci dei voli, delle coincidenze, degli scali.
L'attesa, quello stato in bilico, incerto, come pietrificato in un tempo cristallizzato da una durata ci appare forse più lunga perché si lega al pensiero e alla memoria rimessi in moto da quella stessa attesa come in uno stato di insonnia, quando la notte non concede l'oblio e la mente si sposta vagando verso luoghi, emozioni e desideri diversi e sovrapposti.
Per viaggiare forse sarebbe utile aver fatto il militare, anche se il viaggio rende l'idea del movimento e della libertà e il militare suscita immagini di staticità e costrizione.
Viaggiare e fare il servizio militare insegnano però ad attendere, a scoprire la pazienza e le ore dedicate a un niente ricoperto di letture, telefonate, lavoro al computer che in realtà vogliono essere la fuga da quella concentrazione sul nulla che rappresenta il senso ultimo dell'attesa.
Così è stranamente simile l'attesa in una sala di aspetto business class ricca di bevande, giornali e poltrone o in una sedia davanti ai bagni di una camerata e a un gran buco di tempo vuoto; ore di possibile nulla trascorse nel lusso o nello squallore.
Così forse il servizio militare e il viaggio trovano il loro senso proprio nell'attesa, file per mangiare e file per i controlli, documenti, e passaggi obbligati per uscire dalle mura di una caserma e per uscire dai confini per varcarne altri.
L'orologio, il veliero e il treno sono del resto i codici che de Chirico ha innestato nelle antiche piazze con le arcate e le statue per costruire la forma visiva della nuova attesa moderna, per restituire il senso di incertezza e di smarrimento che l'uomo del primo Novecento provava per l'arrivo di un secolo carico di tragedie, per il suo stato di apolide dalle tante patrie in attesa di trovare le sue radici definitive. L'attesa di de Chirico è quella di Arianna che aspetta l'arrivo di Dioniso a dare un significato al labirinto e a liberarla dalla prigione plumbea di Saturno, ed è lo stato di inquietudine davanti al senso del tempo che cambia compresso dal nume della velocità, dalle leggi ferree dell'orologio che dialoga con le ombre lunghe del meriggio nietzschiano in quello stato di sospensione che ha potuto comprendere chi ha passato una domenica di vuoto assolato tra le arcate di una caserma romana che proiettano le loro ombre sul piazzale deserto, mentre il sole taglia le camerate dalle vetrate sollevando un pulviscolo denso e lucente e una canzone sembra modellarsi sui corpi immobili di ragazzi pietrificati dall'attesa di una domenica senza libertà in un anno che sembra infinito. De Chirico è riuscito in questo modo a restituire il non-senso del tempo dell'attesa, il suo enigma di tempo interiore distante dai dettami di Chronos e pervaso dal sentimento mentale della melanconia dove l'ora dell'orologio del giorno trionfante non è l'ora delle ombre lunghe che si avvicinano al crepuscolo. Il fato dunque ha voluto che proprio le caserme ferraresi e il servizio militare durante la prima guerra mondiale con le sue ore prive di senso apparente dominate da burocrazie e da obblighi e richiami postali portassero a compimento il senso dell'attesa e il non-senso del tempo di de Chirico, portando alla piazza ferrarese e ortopedica delle Muse inquietanti e agli accumuli di cose e pensieri degli interni metafisici, dove il tempo negato dagli obblighi della leva si comprime e si manifesta nell'assemblaggio di oggetti, di misure e di biscotti.
"Ovunque è l'attesa e il raccoglimento" scriveva de Chirico soldato nel 1917, mentre l'Europa si stava macellando nella guerra, ma quell'attesa e la stasi dei lunghi giorni di caserma contenevano anche l'aspirazione al viaggio, il vagheggiamento di luoghi esotici, di palmizi, di kajak che vogano su mari magnetici "sotto il cielo rettangolo duro d'azzurro" ricreati dalla sua camera trasformata in un "bellissimo vascello" dove si potevano "fare viaggi avventurosi degni d'un esploratore testardo", dalla sua finestra-boccaporto di nave dove il cavalletto "è un'antenna senza la vela" e dove il "paccobotto che fa carbone a Teneriffa" "salpa verso i porti della vecchia Europa". Il viaggio doveva alludere però anche alle scoperte della Metafisica, quando l'artista si è trovato solo con le visioni del futuro che doveva ancora compiersi, con immagini di un mondo nuovo dove l'artista come Odisseo, dal promontorio del suo ventinovesimo anno, vede "la latitudine dell'opera mia allungarsi per chilometri e chilometri, a ostro e da settentrione, senza intermittenze cretine d'infiniti siderali. La nave degli Argonauti è scomparsa tra i ghiacci e le nebbie. Profondità e solitudine hanno finalmente lasciato gli oceani insondati. Anfibi dall'epidermide sensibile, avvolta in una rete di brividi strani, guizzano ormai nelle acque tepide dei porti. In quelle acque limitate dalle terre arse e solide e dalle costruzioni industriali. Acque che non rispecchiano stupidamente il paesaggio che le sovrasta perché ben colorate dalle bollenti cascatelle zolfuree che giù dalle rocce fumanti della riva grondano continuamente. Sfoghi suavissimi della bile tellurica. In quel calore fecondo fatto di pomeriggio di zolfo e di vapore nasce l'opera dai mille palpiti madida di sudore amaro. Per accompagnare questa mia felicità rilievi perfettissimi si formano lungo le pareti della mia camera. Vedo centurie romane pigiate dal serragonii varcare in tenera simmetria i ponti di barche gittati per le lontane conquiste fatali".
Che quel momento contenesse il senso del viaggio per mare e dell'attesa in una Ferrara che per il pittore aveva qualcosa di "marittimo e portuale" lo chiarisce lo stesso de Chirico in una lettera a Carlo Carrà del 1918: "siamo i nuovi Vespucci e Colombo. Portiamo in noi le tristezze e le speranze delle spedizioni lontane. Ci saranno i giorni cattivi, lo so; i giorni di tempesta e i giorni senza vento in cui le vele penzoleranno sgonfie lungo gli alberi delle navi; ci saranno i giorni in cui la ciurma si rivolterà, e rifiuterà di andar più avanti e vorrà assalirci col coltello tra i denti e le pistole in mano; che la fermezza mai ci abbandoni; né mai ci tenti la promessa di facili approdi; e in compenso avremo i giorni splendenti in cui la bellezza delle nuove terre scoperte ci sorgerà innanzi dalle nebbie del mattino". Dopo queste immagini che suscitano memorie romanzesche di Stevenson o Conrad, nei suoi viaggi di scoperta nella sua stanza-vascello, de Chirico incontrerà poi manichini e pesci sacri, Edipo e la Sfinge, il padre e il figliol prodigo, le ville romane con i loro dèi volanti, fino ai gladiatori e agli eserciti romani che muovevano dalla Città Eterna per conquistare fatalmente il mondo. Così non casualmente chi ottiene in sorte il posto giusto partendo in aereo da Fiumicino in un pomeriggio di sole può ammirare dall'alto le ombre che si allungano sulle piste dell'aeroporto e lo specchio geometrico del porto di Traiano, misconosciuto capolavoro architettonico visibile solo agli aerei e dai satelliti che può essere scambiato per un semplice laghetto e che invece era il luogo centrale dei commerci e dei viaggi dell'impero: da quel porto potevano essere idealmente partite le centurie romane per apparire allo stesso de Chirico, per proteggere il viaggio degli argonauti e il nostro stesso viaggio nato dopo le attese tra le ombre lunghe degli aeroporti e la visione colma di melanconia di un antico esagono d'acqua tracciato nel suolo e attraversato dall'ombra di una macchina volante come un gigantesco Mercurio metallico sospeso nel cielo di Roma.



















2 commenti:

  1. Mio adorato Marcellino,
    ho letto con grande curiosità e passione le tue pagine di diario dedicate agli aeroporti, questi mondi fuori dal mondo in cui lavoro da ormai quasi 20 anni.
    Mi piace soprattutto ritrovare nelle tue parole questa singolare similitudine con l'antico porto di Traiano, dimenticato tra i rovi a due passi dal bruciatore di Fiumicino, e il moderno aeroporto.
    È forse per dare un senso alla mia quotidianità lavorativa che spesso mi perdo ad immaginare qualche antico portuale che, come me, entra nelle stive, parla agli equipaggi, studia i carichi, sorveglia i lavoranti e sigla documenti.
    Proprio come allora. E mi piace pensare che proprio come allora qui a Roma si cerca di farlo sorridendo, anche se piove, anche se c'è tramontana, con una battuta per tutti e per tutto, cercando sempre di non prendersi troppo sul serio.
    D'altronde come potremmo con tutti i nostri limiti?
    Ti lascio immaginare quante ne ho viste in questi anni: storie, facce, razze, lingue, lacrime e botte...
    e, infine, quando le sale si svuotano, quando l'ultimo uomo d'affari è partito, quando l'ultima nave è salpata, quando l'ultimo doganiere chiude il suo ufficio a chiave, quando le macchine del caffè esalano l'ultima goccia, quando si iniziano mestamente le pulizie, allora questa gigantesca scatola diventa magica e lì mi incanto oggi come ieri, davanti a queste distese di cemento deserte, davanti ai tralicci che diffondono luce fredda, mentre gli aerei chiusi dondolano lentamente al vento.

    A presto Marcello, a presto...

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  2. grazie carlo è un commento molto bello e poetico mi fa piacere che tu abbia apprezzato, del resto il testo sugli aeroporti è stato fatto anche pensando a te, un abbraccio

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