martedì 23 giugno 2009

Tutti i cieli dell'estate








21 giugno



Il primo cielo dell'estate è un cielo scuro e freddo dove il sole è un cerchio bianco dietro un muro di nuvole cariche di pioggia, fino a quando il vento cambia diventa più caldo e allontana le nubi riportando il sole e la luce piena e netta di un pomeriggio che si dilata lentamente fino alla sera.

Il primo cielo dell'estate è il sole che strappa la veste grigia che lo copre lanciando raggi lunghi su una vallata arriva fino al Tirreno e che potrebbe essere una di quelle dipinte da Claude Lorrain se non fosse per il cemento, le antenne e le ciminiere che si smaterializzano nella luce dorata che anticipa il tramonto.

Così quel cielo sembra fissato con un nitore che taglia le case e gli alberi sul suo sfondo attraversato da nuvole lievi che tracciano un mosaico di riflessi, nell'attimo splendente del giorno più lungo dell'anno dove si vorrebbe arrestare quel tempo che in quell'ora di dilatata intensità annuncia il suo inesorabile trascorrere nascosto nel fulgore assoluto che infiamma la vita e le cose.

In quel bagliore che si riflette nel mare la nostra vita sembra bloccata in un'istantanea lucente, eppure quel momento che apre l'estate racchiude già la nostalgia per un tempo ritornato veloce dopo essersi trattenuto tra i raggi di quel sole, nei riflessi rossastri che si distendono sulle foglie e sugli edifici, cancellando le bruttezze edilizie e riportando boschi e campagne alla loro mitologica e arcaica innocenza, alla loro infanzia perduta dove le ombre delle ninfe e dei fauni s'incontrano ancora nel loro rituale d'amore per accompagnare il trionfo di Venere e della rigenerazione del mondo abbandonati nella pietra corrosa di un rilievo destinato a restare imprigionato nella terra e tra le radici del sottosuolo.
Quelle ombre discrete di una bellezza sognata e ideale segnano il tempo volatile e spietato dell'estate appena nata e destinata crudelmente a finire, danno il senso di una nostalgia senza rimedio nel pulviscolo splendente della sera, memorie impalpabili di un'età dell'oro immaginaria ricostruita, celebrata e rappresentata da secoli, sagome incerte di un'assenza che solo per un attimo appaiono e si disfano nella luce abbagliante del vespro d'estate distesa sul paesaggio meraviglioso e sfregiato di un'Arcadia perduta e distante.

lunedì 26 gennaio 2009

studio per un viaggio












Il viaggio è uno dei simboli più antichi nella storia dell'umanità e la sua sola evocazione è capace di dare ancora vita a immagini di grande potenza per le quali si può usare il termine fatale di rivelazione, così da Saulo verso Damasco al giovane capitano de La linea d'ombra, ai viaggi nello studio-veliero di de Chirico e a infinite altre storie e opere, il viaggio è da sempre uno dei tramiti più forti proprio per una rivelazione che può giungere inaspettata anche in un breve viaggio a Bologna, nell'ostentazione dell'arte come merce costosa, nei padiglioni dell'ArteFiera nell'anno della grande crisi, camminando tra le opere con il rischio di fare indigestione e di avvertire il senso di pochezza che spesso trasuda dalle arti visive più recenti mescolato a una nausea simile a quella che si può provare dopo un'indigestione di dolci.
A Bologna qualche giorno fa entrando nel padiglione della galleria James Cohan di New York si poteva quindi trovare una piccola stanza dedicata a Bill Viola, un piccolo spazio buio ravvivato da una serie di schermi luminosi sempre pieno di gente, dove tutti ammiravano principalmente un grande schermo al plasma in cui due donne emergevano dal confine liquido dell'aldilà forse per mettersi un'ultima volta in contatto con il mondo terreno dei vivi. Sul lato di quello spazio buio si poteva trovare però un dittico del 2002 abbastanza trascurato dal pubblico, fatto di due piccoli schermi concepiti come le predelle di una pala d'altare e chiamato eloquentemente Studio per un viaggio. Nello schermo a sinistra, in una piccola cameretta priva di una parete per permettere la visione dell'interno (come accadeva nella pittura toscana tra Tre e Quattrocento) misteriosamente posta su un alto sperone roccioso a cui si giunge attraverso un sentiero, un uomo morente è accudito al proprio capezzale da un uomo e una donna, probabilmente il figlio e la nuora mentre fuori un uomo vestito di bianco (impersonato dallo stesso artista) attende seduto in una chiara luce irreale che sembra mescolare influssi rinascimentali a memorie di Edward Hopper. Nell'altro schermo, in una tersa giornata rischiarata dallo stesso sole innaturale, un pesante e tozzo barcone da trasporto in legno sulla riva di un lago, di un fiume o di un mare al centro di una chiostra di montagne viene caricato con i vecchi mobili di una casa da alcuni uomini in abiti da lavoro mentre una vecchia signora dai capelli bianchi aspetta paziente seduta su una sedia. Si può intuire quello che sta accadendo e cosa unirà le due scene, si pensa all'Isola dei morti di Arnold Böcklin, alle immagini archetipe del viaggio per mare e si attende spostando lo sguardo da uno schermo all'altro. Così dopo che i due giovani addolorati hanno lasciato solo il vecchio sul suo letto, la figura vestita di bianco (un angelo vestito come un pittore impressionista?) chiude la stanza e se ne va, l'uomo resta solo e abbandona il mondo terreno: dall'altra parte lo stesso uomo compare in basso su quella spiaggia e abbraccia la donna che lo stava attendendo, forse sua moglie, sua madre o una figura angelica, si incontrano ancora dopo una lunga separazione, sono visibilmente commossi e si tengono stretti con un affetto infinito, i lavoratori della barca salutano l'uomo con cordialità e finiscono di caricare i mobili, sono pronti a partire, il carico è pronto, gli uomini fanno accomodare i due anziani che si sono appena incontrati, si separano, alcuni restano a riva, altri avviano il motore, la barca salpa. Nell'altro schermo il figlio e la nuora tornano e trovano la porta per sempre chiusa, si disperano, la separazione è irrimediabile, restano solo le lacrime e il doloroso senso del distacco definitivo, dall'altra parte le persone sulla barca salutano gli uomini rimasti a terra, la barca si allontana nel canale tra le montagne, i video si spengono lasciandoci sospesi tra la tristezza della perdita e la gioia leggera per il ritorno.
Bill Viola si è voluto in questo modo confrontare con grande forza evocativa e potenza iconografica con temi universali come la morte terrena e la nascita celeste, il passaggio dal naturale al trascendente, il passaggio dal mondo dei vivi a quello che crediamo dei morti, la fine e la rinascita con cui può misurarsi adeguatamente mediante il suo personale e potente rinnovamento delle arti visive che lo rende un autore capace di riflettere sulle simbologie che hanno unito le religioni nella storia degli uomini e di dare loro nuova vita grazie a un'eccezionale e densa capacità di ricreazione e rielaborazione. In quest'opera l'autore riesce a ritrovare Beato Angelico e Böcklin, Giotto, de Chirico e Hopper, il senso mistico della quotidianità e la sacralità profonda della pittura senza cadere nell'illustrazione ma mostrandoci come la tradizione possa essere ancora un corpo vivo e attivo nel nostro confronto fecondo con la storia, come il passato possa aiutare il presente nelle sue trasformazioni senza cadere in accademismi e sterili riesumazioni.
Bill Viola con un linguaggio sapientemente semplificato ci parla allora del mistero della vita e della morte, tocca quello che l'arte ha sempre cercato di esprimere, ma che troppo spesso sembra dimenticare, e raggiunge una dimensione metafisica sia in senso artistico che filosofico capace di commuovere, come Canto d'amore di de Chirico commosse Magritte. Non a caso infatti tutti quelli che guardano quest'opera con attenzione fino alla fine si ritrovano con gli occhi bagnati da quelle lacrime che l'artista ha affrontato nei suoi lavori sul pianto e sul compianto, forse per una persona o per il Redentore a cui la disperazione e le lacrime sono state riservate in tanti capolavori della storia dell'arte. L'eloquenza delle lacrime che Jean-Loup Charvet ha scoperto in un suo saggio prima di scomparire prematuramente rende dunque giustizia alla verità di quest'opera, alla sua forza di emozionare e di suscitare quelle passioni che l'artista ha studiato nelle sue complesse ricerche sull'arte antica.
Così Bill Viola ci ha regalato la disperazione per il distacco e la felicità lieve dell'agnizione, la separazione e il ritrovamento dopo la perdita definitiva, la fine che diviene un inizio nella luce di un meriggio senza tempo, il viaggio di partenza o ritorno verso isole lontane dove forse potremo riabbracciare i nostri cari.
























giovedì 22 gennaio 2009

le ombre lunghe degli aeroporti





Per partire la nostra nave, galleggiante o volante, ha bisogno di un porto, e chi pensa che i porti per volare siano in fondo tutti uguali, non-luoghi omologati dove si potrebbe essere indifferentemente ovunque e da nessuna parte si sbaglia.
Certo, molti aeroporti si somigliano, ma meritano uno sguardo speciale che non si limiti alle apparenze per essere veramente compresi.
Gli aeroporti segnano innovazioni e ritardi, speranze realizzate o fallite, ricchezze e miserie, progressi e regressioni, errori e vittorie delle città e dei paesi che li ospitano: l'India si comincia a capire dai suoi aeroporti, Calcutta, New Delhi e Mumbai, tra ritardi dello stato e potenza del privato; la Germania si mostra grandiosa a Francoforte e Monaco; la Libia è molto più vicina a Milano se si va a Tripoli magari partendo da Malpensa e si scopre che il verde è un colore amato dai leghisti, dagli architetti-arredatori-designer milanesi e dal mondo arabo e che l'Italia rimane mediterranea anche nella trascuratezza del grande aeroporto della sua capitale economica ed "europea".
Così Fiumicino è un aeroporto che si può intuire nella sua complessità forse solo partendo per un volo intercontinentale di primissima mattina, quando fuori l'aria è fredda, attraversata dalla luce dei neon e si entra nel vuoto dei check-in chiusi, aspettando che tutto apra in quell'intervallo dove ogni cosa deve ancora cominciare e dove la vita che si agiterà qualche ora dopo non appare neanche possibile. Da lì comincia quell'attesa che segna i passi di un lungo viaggio, e forse non a caso con le Attese di partire Piero Guccione ha dipinto quelli che oggi potrebbero essere i suoi quadri migliori, opere dove le ombre lunghe che entrano con il sole dalle vetrate restituiscono il mistero chiaro e la sospensione di quelle attese oggi sempre più amplificate dalle necessità della sicurezza, dalla complessità degli intrecci dei voli, delle coincidenze, degli scali.
L'attesa, quello stato in bilico, incerto, come pietrificato in un tempo cristallizzato da una durata ci appare forse più lunga perché si lega al pensiero e alla memoria rimessi in moto da quella stessa attesa come in uno stato di insonnia, quando la notte non concede l'oblio e la mente si sposta vagando verso luoghi, emozioni e desideri diversi e sovrapposti.
Per viaggiare forse sarebbe utile aver fatto il militare, anche se il viaggio rende l'idea del movimento e della libertà e il militare suscita immagini di staticità e costrizione.
Viaggiare e fare il servizio militare insegnano però ad attendere, a scoprire la pazienza e le ore dedicate a un niente ricoperto di letture, telefonate, lavoro al computer che in realtà vogliono essere la fuga da quella concentrazione sul nulla che rappresenta il senso ultimo dell'attesa.
Così è stranamente simile l'attesa in una sala di aspetto business class ricca di bevande, giornali e poltrone o in una sedia davanti ai bagni di una camerata e a un gran buco di tempo vuoto; ore di possibile nulla trascorse nel lusso o nello squallore.
Così forse il servizio militare e il viaggio trovano il loro senso proprio nell'attesa, file per mangiare e file per i controlli, documenti, e passaggi obbligati per uscire dalle mura di una caserma e per uscire dai confini per varcarne altri.
L'orologio, il veliero e il treno sono del resto i codici che de Chirico ha innestato nelle antiche piazze con le arcate e le statue per costruire la forma visiva della nuova attesa moderna, per restituire il senso di incertezza e di smarrimento che l'uomo del primo Novecento provava per l'arrivo di un secolo carico di tragedie, per il suo stato di apolide dalle tante patrie in attesa di trovare le sue radici definitive. L'attesa di de Chirico è quella di Arianna che aspetta l'arrivo di Dioniso a dare un significato al labirinto e a liberarla dalla prigione plumbea di Saturno, ed è lo stato di inquietudine davanti al senso del tempo che cambia compresso dal nume della velocità, dalle leggi ferree dell'orologio che dialoga con le ombre lunghe del meriggio nietzschiano in quello stato di sospensione che ha potuto comprendere chi ha passato una domenica di vuoto assolato tra le arcate di una caserma romana che proiettano le loro ombre sul piazzale deserto, mentre il sole taglia le camerate dalle vetrate sollevando un pulviscolo denso e lucente e una canzone sembra modellarsi sui corpi immobili di ragazzi pietrificati dall'attesa di una domenica senza libertà in un anno che sembra infinito. De Chirico è riuscito in questo modo a restituire il non-senso del tempo dell'attesa, il suo enigma di tempo interiore distante dai dettami di Chronos e pervaso dal sentimento mentale della melanconia dove l'ora dell'orologio del giorno trionfante non è l'ora delle ombre lunghe che si avvicinano al crepuscolo. Il fato dunque ha voluto che proprio le caserme ferraresi e il servizio militare durante la prima guerra mondiale con le sue ore prive di senso apparente dominate da burocrazie e da obblighi e richiami postali portassero a compimento il senso dell'attesa e il non-senso del tempo di de Chirico, portando alla piazza ferrarese e ortopedica delle Muse inquietanti e agli accumuli di cose e pensieri degli interni metafisici, dove il tempo negato dagli obblighi della leva si comprime e si manifesta nell'assemblaggio di oggetti, di misure e di biscotti.
"Ovunque è l'attesa e il raccoglimento" scriveva de Chirico soldato nel 1917, mentre l'Europa si stava macellando nella guerra, ma quell'attesa e la stasi dei lunghi giorni di caserma contenevano anche l'aspirazione al viaggio, il vagheggiamento di luoghi esotici, di palmizi, di kajak che vogano su mari magnetici "sotto il cielo rettangolo duro d'azzurro" ricreati dalla sua camera trasformata in un "bellissimo vascello" dove si potevano "fare viaggi avventurosi degni d'un esploratore testardo", dalla sua finestra-boccaporto di nave dove il cavalletto "è un'antenna senza la vela" e dove il "paccobotto che fa carbone a Teneriffa" "salpa verso i porti della vecchia Europa". Il viaggio doveva alludere però anche alle scoperte della Metafisica, quando l'artista si è trovato solo con le visioni del futuro che doveva ancora compiersi, con immagini di un mondo nuovo dove l'artista come Odisseo, dal promontorio del suo ventinovesimo anno, vede "la latitudine dell'opera mia allungarsi per chilometri e chilometri, a ostro e da settentrione, senza intermittenze cretine d'infiniti siderali. La nave degli Argonauti è scomparsa tra i ghiacci e le nebbie. Profondità e solitudine hanno finalmente lasciato gli oceani insondati. Anfibi dall'epidermide sensibile, avvolta in una rete di brividi strani, guizzano ormai nelle acque tepide dei porti. In quelle acque limitate dalle terre arse e solide e dalle costruzioni industriali. Acque che non rispecchiano stupidamente il paesaggio che le sovrasta perché ben colorate dalle bollenti cascatelle zolfuree che giù dalle rocce fumanti della riva grondano continuamente. Sfoghi suavissimi della bile tellurica. In quel calore fecondo fatto di pomeriggio di zolfo e di vapore nasce l'opera dai mille palpiti madida di sudore amaro. Per accompagnare questa mia felicità rilievi perfettissimi si formano lungo le pareti della mia camera. Vedo centurie romane pigiate dal serragonii varcare in tenera simmetria i ponti di barche gittati per le lontane conquiste fatali".
Che quel momento contenesse il senso del viaggio per mare e dell'attesa in una Ferrara che per il pittore aveva qualcosa di "marittimo e portuale" lo chiarisce lo stesso de Chirico in una lettera a Carlo Carrà del 1918: "siamo i nuovi Vespucci e Colombo. Portiamo in noi le tristezze e le speranze delle spedizioni lontane. Ci saranno i giorni cattivi, lo so; i giorni di tempesta e i giorni senza vento in cui le vele penzoleranno sgonfie lungo gli alberi delle navi; ci saranno i giorni in cui la ciurma si rivolterà, e rifiuterà di andar più avanti e vorrà assalirci col coltello tra i denti e le pistole in mano; che la fermezza mai ci abbandoni; né mai ci tenti la promessa di facili approdi; e in compenso avremo i giorni splendenti in cui la bellezza delle nuove terre scoperte ci sorgerà innanzi dalle nebbie del mattino". Dopo queste immagini che suscitano memorie romanzesche di Stevenson o Conrad, nei suoi viaggi di scoperta nella sua stanza-vascello, de Chirico incontrerà poi manichini e pesci sacri, Edipo e la Sfinge, il padre e il figliol prodigo, le ville romane con i loro dèi volanti, fino ai gladiatori e agli eserciti romani che muovevano dalla Città Eterna per conquistare fatalmente il mondo. Così non casualmente chi ottiene in sorte il posto giusto partendo in aereo da Fiumicino in un pomeriggio di sole può ammirare dall'alto le ombre che si allungano sulle piste dell'aeroporto e lo specchio geometrico del porto di Traiano, misconosciuto capolavoro architettonico visibile solo agli aerei e dai satelliti che può essere scambiato per un semplice laghetto e che invece era il luogo centrale dei commerci e dei viaggi dell'impero: da quel porto potevano essere idealmente partite le centurie romane per apparire allo stesso de Chirico, per proteggere il viaggio degli argonauti e il nostro stesso viaggio nato dopo le attese tra le ombre lunghe degli aeroporti e la visione colma di melanconia di un antico esagono d'acqua tracciato nel suolo e attraversato dall'ombra di una macchina volante come un gigantesco Mercurio metallico sospeso nel cielo di Roma.



















martedì 20 gennaio 2009

eccomi sono qui




















Call me Ishmael. Some years ago - never mind how long precisely - having little or no money in my purse, and nothing particular to interest me on shore, I thought I would sail about a little and see the watery part of the world. It is a way I have of driving off the spleen, and regulating the circulation. Whenever I find myself growing grim about the mouth; whenever it is a damp, drizzly November in my soul; whenever I find myself involuntarily pausing before coffin warehouses, and bringing up the rear of every funeral I meet; and especially whenever my hypos get such an upper hand of me, that it requires a strong moral principle to prevent me from deliberately stepping into the street, and methodically knocking people's hats off - then, I account it high time to get to sea as soon as I can. This is my substitute for pistol and ball. With a philosophical flourish Cato throws himself upon his sword; I quietly take to the ship. There is nothing surprising in this. If they but knew it, almost all men in their degree, some time or other, cherish very nearly the same feelings towards the ocean with me.

Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa - non importa quanti esattamente - avendo poco o niente denaro in tasca e nulla di particolare che m'interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. E' un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m'accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell'anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io buono buono mi metto in mare. Non c'è nulla di sorprendente in questo. Se soltanto lo sapessero, quasi tutti gli uomini nutrirebbero, una volta o l'altra, ciascuno nella sua misura, su per giù gli stessi sentimenti che nutro io verso l'oceano.

Herman Melville, Moby Dick



Carissime amiche e carissimi amici, spero che stiate bene come vi auguro, se leggete l'esergo di questo testo che ho indegnamente copiato qui (che HM mi perdoni...) vi potrete chiarire il perché della mia (temporanea?) scomparsa, ho saputo che purtroppo la mia cancellazione da FB ha fatto sparire i saluti che lasciato sulle bacheche di tutti voi, quindi avrete forse pensato che io me ne sia andato senza neanche un piccolo gesto di cortesia o riguardo nei vostri confronti, scusatemi dunque, ma sappiate che non è così.

Avevo avuto cura di lasciarvi una piccola memoria e un saluto ricordandovi che comunque rosa è la vita (!), ma con la mia dipartita digitale tutto si è dissolto, tutto è vanità, del resto.


Ho saputo da Lorenzo che ci sono stati molti bellissimi gesti di affetto per me in questi giorni e ve ne sono davvero molto grato, l'affetto è ricambiato di cuore e questa lettera in forma elettronica ne vuole essere la prova scritta.

Mi avete commosso, sinceramente e così ho deciso di coinvolgervi in questa mia bizzarra avventura, sperando che Marcel Runciter sia riuscito a contattarvi come doveva e che sia riuscito a superare le difficoltà dovute alla sua appartenenza a un'altra dimensione, che questo mio strano amico riesce a evitare solo attraverso un buffo e un po' ampolloso linguaggio pseudo-poetico.

Sono partito di corsa, lasciando anche molte cose un in disordine nella mia casa su FB (ora chiusa) e la polvere si sta accumulando troppo sul vetro (del monitor?), dovrò fare in modo di sistemare questa questione, ma questo è un altro problema.

Allora, io sono partito e per ora me ne vado, forse, in India, per poi fare altri giri e se avrete voglia (ma non so se augurarvelo) qui troverete una specie di diario di bordo, storie inutili, racconti o non-racconti, cazzate e fatti vari, cose di cui non vi fregherà niente ma che se vorrete potrete leggere e commentare in attesa di rivederci, speriamo, alla fine di questo eccentrico pellegrinaggio.

Intanto se siete arrivati qui voglio dirvi grazie, vuol dire che siete attenti a me come io sono attento e legato a voi.

Gli ultimi giorni su FB, durante quel melodrammatico conto alla rovescia (scusate, questa è la teatralità deteriore che ogni tanto trapela dal mio modo di essere) la vostra indimenticabile richiesta di non sparire mi ha convinto che voi siete il mio migliore antidepressivo e che così potevo uscire da una situazione di stallo quasi imprigionante dialogando con voi in questo nuovo modo, se non vi piacerà potete criticarmi coi vostri commenti oppure (meglio, per voi; peggio, per me) dimenticarmi e non visitare più questo diario sulla rete.

Ricordatevi però che state aiutando la mia scrittura e la mia pigra e presunta intelligenza, ve ne sarò per sempre obbligato, vi prego, pertanto, se lo riterrete opportuno, di rendere nota a tutti le amiche e gli amici l'esistenza di queste pagine atrabiliari e di avere la benevolenza di continuare a leggerle almeno fino a quando non vi avranno esasperati o annoiati.

Per ora vi ringrazio con affetto, tra pochissimo tempo (giorni o ore) cominceranno le memorie di viaggio che troverete pubblicate in questo oggetto immateriale che chiamiamo blog, se vi ho seccati perdonatemi, e comunque ricordatevi che vi voglio bene e che rosa è la vita!

Il Vostro affezionatissimo Marcello Delcampo


p.s.

Intanto com'è mia abitudine vi allego un link musicale, dedicato a chi aspetta, a chi viaggia aspettando, a chi aspetta viaggiando, a chi si aspetta, o non si aspetta, di viaggiare, a Gino Bartali amico dei miei nonni Argentina e Giulio, a loro due, a voi che forse non vi aspettavate questo delirio. La mia finestra è un boccaporto di mare e rosa è la vita!

http://www.youtube.com/watch?v=rLvy1FFOJZ8